COP28: il mondo si prepara all’uscita dalle fonti fossili?

18 Dicembre 2023

Di Roberta Bonacossa Head of Partnership & Sustainability Consultant

La 28°Conferenza della Parti sul clima delle Nazioni Unite, tenutasi dal 30 novembre al 12 dicembre a Dubai, si è conclusa con un risultato indubbiamente storico: per la prima volta  nell’accordo finale viene fatto esplicito riferimento alla transizione da tutti i combustibili fossili. Un avanzamento rispetto alla COP26 di Glasgow in cui l’obiettivo raggiunto era stato un mero “phase down” dal carbone. Non mancano però criticità sull’equilibrio tra Sud e Nord Globale, sulla finanza climatica, che non si è dimostrata all’altezza delle ambizioni, sino alle lacune legate alla programmazione ed agli strumenti necessari per la transizione energetica. 

No, al phase-out e le lobby dei fossili

L’eliminazione dei combustibili fossili è il fulcro dell’azione climatica, ciò che la scienza continua a sottolineare per riuscire a mantenere la temperatura media globale sotto 1.5 gradi e contrastare i cambiamenti climatici. Un’azione necessaria, che però incontra gli interessi politici ed economici degli Stati più forti e produttori delle fonti fossili (Arabia Saudita, Stati Uniti, Cina, Russia, etc.)

Nella stesura delle bozza del Global Stocktake (GST) documento cardine dei negoziati e mirato a definire i confini e le prospettive della transizione, si sono susseguite diverse versioni ed opzioni. 

Nella versione del 5 Dicembre si nominava per la prima volta il “phase out” con tre opzioni: l’eliminazione graduale dei combustibili fossili; l’eliminazione graduale dei combustibili fossili “senza sosta”; o “nessun testo”.

Il giorno successivo alla pubblicazione di questa bozza, il 6 Dicembre, il capo del cartello dei produttori di petrolio dell’OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) – ha inviato una lettera agli Stati membri – poi trapelata alla stampa – esortandoli a “rifiutare proattivamente qualsiasi testo o formula che prenda di mira l’energia, cioè i combustibili fossili. piuttosto che le emissioni”. Ha avvertito: “Sembra che la pressione indebita e sproporzionata contro i combustibili fossili possa raggiungere un punto critico con conseguenze irreversibili, poiché il progetto di decisione contiene ancora opzioni all’eliminazione graduale dei combustibili fossili”. In effetti, i membri dell’OPEC all’interno del gruppo arabo delle nazioni presenti al vertice sul clima – inclusa l’Arabia Saudita – sono stati tra coloro che si sono opposti al linguaggio all’eliminazione graduale dei combustibili fossili. La presenza dei lobbisti delle multinazionali di petrolio durante COP28 ha superato qualsiasi record precedente raggiungendo quota 2.456. La loro influenza era prevedibile visto il peso del tema sul tavolo, allo stesso tempo verrebbe da chiedersi, se la loro presenza sia legata anche alla paura che il mondo decida di spostare il peso dell’economia lontano dalla produzione e dal consumo di combustibili fossili.

Global Stocktake (GST)

Durante COP28 si è discusso del primo Global Stocktake (GST), ossia il “bilancio globale” su come i Paesi possono accelerare l’azione per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi. L’accordo finale stipulato da 198 Paesi del mondo durante COP28 definisce le prospettive del clima per i prossimi decenni. In particolare si evince la volontà di: 

  • Triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica al 2030; 
  • Il phase-down del carbone non abbattuto, un passo nella giusta direzione, ma non sufficiente, per limitare il riscaldamento globale, è necessario eliminare completamente il carbone entro il 2030;
  • Transitioning away” dai combustibili fossili per raggiungere le zero emissioni nette al 2050. Non è stato raggiunto il phase out, obiettivo iniziale richiesto da 100 Paesi, per le pressioni degli Stati OPEC, Arabia Saudita e Cina, non rispondendo così alle richieste fatte dalla scienza. Allo stesso tempo seppur rappresenti un segnale positivo per la fuoriuscita da tutte le fonti fossili, sono necessari finanziamenti, obiettivi temporali definiti e l’impegno concreto dei singoli Paesi per raggiungere questo obiettivo;
  • La tecnologia sembra essere il motore trainante di questa transizione energetica attraverso l’innovazione dei sistemi di cattura e stoccaggio di CO2, l’utilizzo dell’idrogeno e dell’energia nucleare, oltre che delle fonti rinnovabili.

L’accordo si è concluso nei primi minuti della mattina del 13 Dicembre, con una brevissima approvazione dopo 300 ore di negoziati, senza nessun dibattito e confronto ulteriore. I Paesi dell’Aosis, ossia i rappresentanti delle nazioni insulari più vulnerabili ai cambiamenti climatici, non erano presenti in sala. Anne Rasmussen, delegata delle Isola Samoa, a capo del gruppo Aosis, dichiara: «Non abbiamo voluto interromperla, ma siamo un po’ confusi rispetto a quanto appena accaduto. Sembra che abbiate approvato il documento mentre i piccoli Stati insulari in via di sviluppo non erano presenti in sala. Stavamo lavorando duramente per coordinare i 39 piccoli Paesi insulari, colpiti in modo sproporzionato dai cambiamenti climatici, e quindi siamo arrivati in ritardo. Per quanto riguarda il paragrafo 28, siamo straordinariamente preoccupati che non rappresenti ciò di cui abbiamo bisogno. Temiamo in particolare che i punti “e” ed “h” ci possano potenzialmente fare regredire anziché avanzare. Il secondo punto in particolare ci appare come un elenco di scappatoie”. Quest’ultimo paragrafo sembrerebbe infatti consentire ancora la produzione e il consumo di carbone, petrolio e gas.

Tra malcontenti e compromessi dell’ultimo minuto, il risultato raggiunto è solo il primo passo, politico, per avviare l’uscita dei combustibili fossili entro la metà di questo secolo. L’aspetto più importante però sarà la sua implementazione e realizzazione. 

Il Global Stocktake, nato con l’intento di incentivare gli Stati a condividere i progressi fatti dall’Accordo di Parigi ad oggi, stabilisce anche che tutti i Paesi dovrebbero presentare i prossimi impegni sul clima “almeno 9-12 mesi prima” della COP30, che si terrà nel Novembre 2025 a Belem, in Brasile. Li “incoraggia” a presentare “obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni a livello economico, che coprano tutti i gas serra, i settori e le categorie… allineati con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5°C”. Ad oggi, i Contributi determinati a livello nazionale (NDC) coprono solo le emissioni di anidride carbonica in settori selezionati dell’economia e non fissano obiettivi di riduzione delle emissioni. Per rendere gli NDC’s uno strumento più efficace, l’accordo decide di avviare, sotto la guida delle Presidenze di COP28, COP29 e COP30 una “Roadmap per la Missione 1.5“ per migliorare la cooperazione internazionale, promuovere l’ambizione dei Paesi nella definizione degli NDC’s rimanere nell’obiettivo di non superare +1.5°C. 

Just Transition: una transazione equa

Affrontare ed implementare una transizione energetica su scala mondiale, non rappresenta solo una sfida ambientale, finanziaria e politica ma è anche un tema di giustizia sociale. Nel testo dell’accordo si richiamano i Paesi a “promuovere e considerare i loro obblighi sui diritti umani, diritto alla salute, diritti delle popolazioni indigene, migranti, bambini, persone con disabilità e persone in situazioni vulnerabili”. In più punti si ribadisce poi che “[la giusta transizione] dovrà essere basata su priorità di sviluppo definite a livello nazionale”. Un tentativo di sottolineare, rimarcare con forza il tema da parte del Sud Globale, che rappresenta i Paesi più fragili e colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, ma storicamente non responsabili delle emissioni di CO2. Un tentativo di ovviare ad eventuali slanci di ambizione (e quindi di spesa) europei o comunque occidentali che non sarebbero affrontabili da tali Paesi. 

Adattamento

Le conseguenze dei cambiamenti climatici sono una realtà per moltissimi Paesi del mondo. Per questo motivo, la politica internazionale deve affrontare questa sfida in modo coordinato e tempestivo. In particolare è stato adottato il Global Goal on Adaptation (GGA) che tenta di definire parametri e strumenti per l’adattamento, attraverso il trasferimento tecnologico, finanziamenti e capacity building.

La tempestività, prevedibilità e accessibilità diretta ai finanziamenti per l’adattamento è un aspetto cruciale per poter intervenire e dare supporto ai Paesi più colpiti.  L’accordo non figura richiami espliciti alle responsabilità comuni, ma differenziate, che sono invece un principio fondamentale dell’Accordo di Parigi. Altresì fissa obiettivi per tutti i Paesi, tra cui la valutazione dei pericoli e impatti dei cambiamenti climatici; la formulazione di piani di adattamento nazionali seguiti da pianificazione, attuazione, monitoraggio e valutazione relativamente alle politiche di adattamento; definisce i temi di acqua, cibo, agricoltura e salute, resilienza di ecosistemi e infrastrutture senza specificare gli obiettivi. Viene inoltre riconosciuto il ruolo fondamentale delle popolazioni indigene per sviluppare il quadro di riferimento sull’adattamento, valorizzando la capacità di proteggere il patrimonio culturale e naturale. 

Si segnala però l’insufficienza del finanziamento per l’adattamento per rispondere al peggioramento degli impatti dei cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo, e l’aumento del divario tra bisogni e fondi esistenti. L’accordo impegna i Paesi a colmare questo divario, ma non specifica come. Il testo fa solo riferimento a una generica sostenibilità del debito, che non è sufficiente per garantire l’accesso ai finanziamenti per l’adattamento da parte dei Paesi in via di sviluppo. L’accordo fa un appello ai Paesi sviluppati perché arrivino a raddoppiare entro il 2025 i finanziamenti sull’adattamento ai Paesi in via di sviluppo rispetto ai livelli 2019. 

Fondo Perdita e Danni

Reso operativo nel primo giorno dei negoziati, il fondo per le Perdite e i Danni (Loss & Damage) ha raggiunto 792 milioni di dollari di finanziamenti. Dopo la vittoria di COP27, ottenuta dai Paesi del Sud Globale che si sono visti riconosciuti dopo 20 anni un principio di giustizia climatica, si è raggiunta la sua operativizzazione con COP28. Infatti, sono i Paesi più industrializzati e storicamente più inquinanti a supportare economicamente e tecnicamente i Paesi più vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico. Un passo storico che segna un riconoscimento delle disuguaglianze causate dalla crisi climatica. Restano però molte ombre sulla sua implementazione. Ad oggi il fondo è affidato alla gestione della Banca mondiale con regole provvisorie fino al 2026. In questo periodo di transizione non risultano chiari i parametri e le modalità di chi dovrà contribuire – a titolo volontario – al fondo e chi riceverà il supporto. Un meccanismo complesso che vuole rispondere a disequilibri storici senza chiarezza e finanziamenti sufficienti. Infatti i fondi stanziati a COP28 rendono operativo il fondo, superando il minimo stabilito a Sharm El Sheikh di 250 milioni di dollari, ma sono di gran lunga insufficienti rispetto alle stime fatte dai Paesi più colpiti. I disastri naturali, eventi estremi e gli eventi a insorgenza lenta (come l’aumento del livello dei mari) potrebbero arrecare danni e perdite per 400 miliardi di dollari nel Sud Globale. 

Finanza 

Quest’anno doveva essere l’anno della finanza e della mobilitazione finanziaria. Durante i primi 4 giorni di negoziati sono stati stanziati 57 miliardi di dollari per l’azione climatica, sostenuti soprattutti dal Fondo Alterra, creato dagli Emirati Arabi con 30 miliardi, ed altre azioni indirizzate al tema della salute, genere, adattamento, perdita e danni ecc. 

Sulla finanza climatica si regge tutto l’impianto dei negoziati e degli accordi presi. Seppure sul lato politico si sono raggiunti passi storici, l’aspetto finanziario è inadeguato per rispondere alle esigenze della transizione e delle risposte ai cambiamenti climatici. I principali punti raggiunti nell’accordo finale si concentrano in particolare sull’obiettivo dei 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 e fino al 2025 che i Paesi industrializzati avrebbero dovuto garantire alle economie emergenti. Secondo i dati OCSE nel 2020 si è arrivati a 83,3 miliardi di dollari, mentre secondo i dati OXFAM solo tra 21-24,5 miliardi di dollari. Data la mancanza di una definizione chiara di finanza climatica, è complesso ricondurre finanziamenti e progetti all’azione per il clima. 

A COP28 non si sono raggiunti grandi nuovi risultati, sulla finanza per il clima per il post 2025 – New Collective Quantified Goal (NCQG) – si deciderà il prossimo anno a Baku, durante COP29. L’High-Level Expert Group on Climate Finance (IHLEG), un gruppo di esperti indipendenti incaricato di fornire indicazioni all’UNFCCC, ha presentato alla COP28 di Dubai una stima sui finanziamenti necessari per la transizione energetica. Entro il 2030, secondo l’IHLEG, saranno necessari 2.400 miliardi di dollari di investimenti ogni anno, da destinare principalmente ai mercati emergenti e ai paesi in via di sviluppo. Questa cifra è 24 volte superiore a quella mobilitata finora dai paesi più ricchi. Le conclusioni dell’IHLEG evidenziano la necessità di un impegno straordinario da parte della comunità internazionale per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima.

Il vero nodo cruciale della finanza si gioca nella definizione e nell’aggiornamento dei “Paesi industrializzati” ed i “Paesi in via di sviluppo”. I Paesi ricchi vogliono allargare la platea dei donatori includendo anche (tra gli altri) la Cina e le petromonarchie del Golfo, riducendo al contempo il numero dei paesi beneficiari. Al contrario, i Paesi in via di sviluppo vogliono mantenere le regole degli anni ’90 e si richiamano soprattutto alle responsabilità storiche dei Paesi di lunga industrializzazione nell’aggravare la crisi climatica. La Cina, dal canto suo, propone che eventuali contributi dai paesi in via di sviluppo siano previsti ma solo a titolo volontario.

Vittoria o fallimento? 

Complesso definire il sistema dei negoziati per il clima, sia perché parliamo di un contesto di diritto internazionale, di per sé di soft-law e quindi privo di un valore giuridico forte supportato da un sistema sanzionatorio, sia perché ci muoviamo tra i fili sottili del sistema geopolitico mondiale tra poteri ed interessi. Trattare un processo multilaterale in cui 198 Paesi si riuniscono allo stesso tavolo per discutere e stipulare accordi sul clima ad una partita in cui si vince o si perde è a dir poco riduttivo e distorsivo. 

Dopo 30 anni di negoziati il mondo riconosce per la prima volta che l’unico futuro possibile è fuori dai combustibili fossili. Non abbiamo alternative, seguire la scienza e mantenere la temperatura media globale entro 1.5° è il tassello per garantire un futuro più sostenibile. 

Il risultato raggiunto oggi, non è abbastanza, ma segna la direzione giusta in cui i Paesi, la politica e l’economia devono andare. Abbiamo bisogno di obiettivi sempre più ambiziosi, ma soprattutto di azioni concrete. Le COP hanno il ruolo di definire il quadro internazionale in cui muoversi, ma sono i singoli Stati che devono implementare le azioni necessarie per affrontare la crisi climatica. La responsabilità, a conclusione delle due settimane di negoziati, torna in capo ad ognuno di noi, come professionisti, come cittadini e come aziende per rendere l’azione per il clima realtà