Una notte di trattative infiammatissime, ministri che corrono da una parte all’altra del grande centro congressi e poi, alla fine, l’accordo. Come ad ogni Conferenza delle Parti sul clima il testo finale non soddisfa del tutto nessuno – inevitabile, in un negoziato. Ma quest’anno vincitori e vinti sembrano essere più chiari del solito.
Contesto: cosa è e di cosa si è parlato a COP29
Facciamo un passo indietro. COP29 è il ventinovesimo incontro negoziale delle Nazioni Unite sul contrasto al riscaldamento globale. Si è aperto a Baku, in Azerbaigian, l’11 novembre di quest’anno, e si è chiuso solo ieri. I paesi firmatari della Convenzione Quadro sul Contrasto ai Cambiamenti Climatici (Unfccc) – di fatto, tutti le nazioni del Pianeta – si riuniscono ogni anno per concordare politiche comuni sull’arginare l’aumento delle temperature medie globali e le sue drammatiche conseguenze. Il primo summit fu a Bonn, nel 1994, presieduto da una giovane Ministra dell’ambiente Angela Merkel. Quell’anno i partecipanti furono – tra diplomatici, giornalisti, osservatori – circa 4000. Al vertice di Baku si sono presentate oltre 60.000 persone: la seconda COP più grande di sempre. All’interno del sistema negoziale delle Nazioni Unite è stata firmata quella che è tutt’ora la più importante intesa sul tema, pilastro di tutta la legislazione globale e di tutte le policies aziendali in materia climatica: l’Accordo di Parigi, concordato nel corso della COP21 del 2015.
COP29 è stata la COP della finanza. Tutti i dossier relativi alla mitigazione – cioè alla riduzione delle emissioni climalteranti – sono stati accantonati, rimandati al prossimo incontro: la COP30 di Belem. A questo giro l’unico vero tema sul tavolo era il New Collective Quantified Goal (Ncqg): la definizione di flussi finanziari che dal Nord globale dovranno andare verso il Sud globale per finanziare la transizione ecologica. Le categorie di Nord e Sud globale sono approssimative, come approssimativo è il concetto di finanza climatica. Tendenzialmente, sono soldi verdi quelli utili a ridurre i gas serra o ad adattare i territori al clima che cambia. Quali paesi appartengano al cosiddetto Nord, e debbano quindi contribuire, e quali invece siano nella platea dei riceventi, è regolato in sede di Unfccc tramite una serie di allegati. Ci torneremo.
Il vecchio obiettivo – concordato nel 2009, una vita politica fa – era di 100 miliardi di dollari l’anno, da raggiungere entro il 2020. Al suo interno si contavano non solo i contributi provenienti dalle casse pubbliche, ma anche finanziamenti privati e mobilitati – cioè provenienti dalle aziende ma su input statale. Il vecchio accordo non indicava quanta parte dei fondi dovesse arrivare a fondo perduto e quanta sotto forma di prestito. I paesi del Sud globale riuniti in un gruppo negoziale chiamato G77 – a spanne Africa, America Latina e quasi tutta l’Asia – sono arrivati a Baku con un obiettivo preciso: più che decuplicare il passato target arrivando a 1300 miliardi di finanza climatica, da ricevere in gran parte a fondo perduto. La cifra viene da uno studio commissionato dalla stessa presidenza delle COP. I paesi donatori, al contrario, puntavano ad una cifra ben più bassa – la posizione europea è oscillata tra i 200 e i 300 miliardi – e con due importanti postille. Primo, evitare di definire quanto esattamente debba venire dai bilanci statali. Secondo, includere nella platea dei donatori anche paesi ancora considerati in via di sviluppo per via degli allegati di cui sopra, ma in realtà ormai ricchi e grandi emettitori. In primis, la Cina.
La decisione finale
Nel corso delle due settimane di negoziato, le posizioni dei blocchi si sono mosse ben poco. La presidenza azera ha iniziato a presentare delle proposte di sintesi, com’è prassi in questo genere di trattative, che però fino all’ultimo hanno faticato a incontrare il consenso delle Parti. Alla fine, dopo più di 24 ore dalla fine ufficiale del summit e coi ministri in procinto di partire, si è trovato un piccolo accordo. La linea è vicina a quella dei Paesi contributori: 300 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2035. Al loro interno non solo finanziamenti pubblici ma «una varietà di fondi»: privato, mobilitato, filantropico, dalle banche multilaterali di sviluppo. Rimangono dentro anche quindi i prestiti – era questa una delle paure del mondo cosiddetto in via di sviluppo. Il G77, dal canto suo, ottiene la menzione dei 1300 miliardi richiesti – anche il G20 di Rio de Janeiro, in corso negli stessi giorni, aveva dato questa indicazione – ma nella forma del «invito» rivolto a generici «attori» – senza dunque obbligo per gli Stati. Altri punti graditi al Sud globale sono la triplicazione entro il 2030 dei finanziamenti legati ad una serie di fondi delle Nazioni Unite e la promessa di ridiscutere in parte questi temi entro la prossima COP, quella di Belem dell’anno prossimo. Piccole cose, comunque, che non hanno soddisfatto i negoziatori non-occidentali. Dopo l’approvazione del testo finanziario una serie di nazioni hanno preso la parola nel corso della seduta plenaria di COP29. La più dura è stata l’India, che ha accusato la presidenza azera di aver battuto il martelletto – ovvero, aver dato luce verde al documento – senza aspettare obiezioni. Non è una denuncia da poco: nel contesto delle COP le decisioni si prendono per consenso, e la contrarietà indiana sarebbe stata in teoria sufficiente a fermare l’approvazione. L’obiettivo, comunque, è stato ugualmente validato.
E ora?
Le COP sono solo dei passaggi di una conversazione che dura da decenni. Le decisioni prese sono politiche prima che legali: non esiste un modo di obbligare gli Stati a rispettarle, ma è la fiducia tra le Parti a cementare il processo. Per questo, ora, è importante avere chiari i prossimi passi.
Entro la COP30 di Belem, tra dodici mesi, le nazioni del Pianeta presenteranno i loro nuovi Nationally Determined Contributions (NDCs). Di fatto, gli impegni che ogni governo prende di fronte al mondo in materia di riduzione delle emissioni climalteranti. Un obiettivo finanziario poco ambizioso come quello stabilito a Baku potrebbe frenare i Paesi in via di sviluppo dallo scrivere NDCs all’altezza della sfida ecologica. Ma se in questi mesi gli Stati occidentali sapranno garantire anche informalmente sufficienti garanzie economiche, è possibile che dal Sud del mondo arrivi uno sforzo. Sarà cruciale in questo il ruolo di tre attori: Unione Europea, Cina e Brasile. La prima è storicamente la maggior contributrice in materia di finanza climatica, e anche alla fine di COP29 ha promesso di impegnarsi perché i 300 miliardi arrivino il prima possibile e sotto forma di finanziamenti, senza nuovo debito. La Cina non ha voluto assumersi alcun obbligo, ma tramite accordi bilaterali paga pezzi di transizione in grandi parti dell’Africa e dell’America Latina. Il Brasile, infine, oltre ad ospitare la prossima Conferenza è considerato l’anello di congiunzione tra Nord e Sud del mondo. Non a caso la carismatica Ministra dell’ambiente Marina Silva, assieme alla sua controparte colombiana Susana Muhamad, è stata una delle protagoniste del negoziato di Baku, capace di mediare tra le Parti in rotta di collisione. Con gli Stati Uniti d’America che si apprestano a lasciare l’Accordo di Parigi e i relativi obblighi finanziari – queste sarebbero le intenzioni del rieletto presidente Donald Trump secondo la stampa internazionale – la volontà di Bruxelles, Pechino e Brasilia diventa sempre più indispensabile.
C’è poi il ruolo del privato. Dalle Nazioni Unite arriva un forte invito ad investire in mitigazione ed adattamento nel Sud globale, in modi rispettosi delle comunità locali, democratici e (come recita il testo approvato) «non-debt inducing», che non portino chi riceve nella trappola del debito. Gli Stati possono invogliare questi investimenti tramite garanzie pubbliche o co-finanziamenti: è la cosiddetta finanza mobilitata. Starà all’imprenditoria, anche quella italiana, raccogliere la sfida.