Dopo anni in cui il tema era rimasto ai margini, l’agroalimentare è da mesi al centro del dibattito politico europeo. Le proteste della piccola imprenditoria settoriale – che hanno avuto il trattore per simbolo – bloccano le strade di molte nazioni del Continente, e i governi si interrogano sul da farsi.
Eppure l’Unione Europea dedica da sempre una larga parte delle sue risorse al settore agroalimentare. La sigla da ricordare è PAC, Politica Agricola Comune. Si tratta dell’insieme delle policies europee dedicate ad agricoltura e allevamento. È la più antica delle politiche comunitarie, e rappresenta da sola un terzo del bilancio di Bruxelles. Capire la PAC è indispensabile per capire le proteste di questi mesi e il futuro del cibo che mangiamo.
Come funziona: due pilastri e molti soldi
La PAC non è una singola norma né un singolo programma, ma l’insieme delle leggi europee sul tema. Gli obiettivi, espliciti, erano alla nascita due: garantire cibo sicuro ai consumatori e garantire condizioni di vita e lavoro equo agli operatori del settore. Col tempo se n’è aggiunto un terzo: la tutela degli ecosistemi. È la stessa Unione Europea a fornire i numeri del programma. La PAC riguarda dieci milioni di agricoltori e più di 450 milioni di consumatori, assorbendo il 31% del bilancio comunitario. Ogni cittadino contribuente la finanzia con circa 30 centesimi al giorno.
La PAC si regge su quelli che in gergo tecnico si definiscono pilastri. Il primo è rappresentato dalle misure ordinarie: pagamenti diretti e misure di mercato. L’Unione Europea finanzia direttamente le aziende agricole, purché rispettino una serie di vincoli e in proporzione alle dimensioni degli appezzamenti. I pagamenti diretti sono vitali per moltissimi agricoltori in tutto il continente, che senza questa risorsa sarebbero costretti a interrompere le attività. Anche per questo rappresentano la voce principale di spesa della PAC: 41.3 miliardi di euro nel 2019. Le misure di mercato, sempre parte del primo pilastro, pesano nettamente meno sul bilancio comunitario: appena 2.3 miliardi allo stesso anno. Servono, nelle intenzioni, a frenare la volatilità dei prezzi e tutelare i produttori europei dalla concorrenza estera.
Il secondo pilastro è relativamente recente – venne introdotto solo nel 1999. È il pilastro delle politiche rurali. Si tratta essenzialmente di un capitolo di spesa votato all’equità: le zone cosiddette rurali – stimate dall’Unione nel 20% del territorio – sono spesso le più marginali, povere, tecnologicamente arretrate. La PAC «rurale» afferisce al più ampio capitolo delle politiche di coesione, cioè l’insieme di fondi e norme europee volti a ridurre le disuguaglianze tra aree geografiche. Sempre nel 2019 il secondo pilastro era dotato di 14.1 miliardi di bilancio.
Un programma più vecchio dell’Europa
Le cosiddette proteste dei trattori hanno acceso i riflettori sulle politiche agricole dell’Unione. Ma – anche se di PAC non si è mai parlato tanto come oggi – la sua esistenza non è una novità.
La PAC vede la luce nel 1962 – trent’anni prima di quel trattato di Maastricht che segna la nascita dell’Unione Europea. Era in origine un pezzo della Comunità Economica Europea, uno dei primi antenati di quella che nei decenni è diventata l’UE. Coinvolgeva solo sei nazioni – Germania, Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo – e aveva un grande avversario: la fame. Il ricordo della guerra mondiale, e della correlata scarsità di cibo, era ancora vivo nelle persone e nei governi. La classe dirigente dell’epoca vede la sicurezza alimentare come una priorità, e per questo fa fronte comune.
Nei decenni il programma cresce in dimensioni e si aggiorna. La prima e più nota delle riforme è quella del 1984. In quel momento, per evitare crisi da sovrapproduzione – ovvero, produrre più di quanto non si venda – viene istituito il sistema delle quote. Essenzialmente, meccanismi di mercato che impongono dei limiti massimi alla produzione. Chi segue da tempo la politica nazionale italiana ricorda la grande polemica sulle quote latte – molto invise a parte dell’imprenditoria agricola e per la cui abolizione si batté l’allora Lega Nord.
Va detto che la PAC dell’epoca era molto diversa da quella attuale. I sostegni diretti, ad esempio, arriveranno solo nel 1992. La politica rurale, come spiegato sopra, nel 1999. E col passare degli anni cambiano anche governance e sfide. Innanzitutto, la società civile pone un problema di democrazia. A gestire la politica agricola è stato per decenni il solo Consiglio Europeo, l’organo che rappresenta i governi comunitari. Un’istituzione più diplomatica che legislativa nel senso classico del termine. Per questo nel 2013 si passa alla legislazione ordinaria: il Consiglio rimane in carica nelle decisioni, ma gli si affianca il Parlamento eletto dai cittadini. Ong e movimenti portano poi sul tavolo le questioni dell’equità e dell’ecologia. L’accusa è quella di favorire i grandi conglomerati agrari e un modello di produzione intensivo, a scapito di sostenibilità e supporto alla piccola imprenditoria. Sia la riforma del 2013 sia quella, recentissima, del 2021 (che indica obiettivi e funzionamento della PAC fino al 2027) si sono proposte di risolvere questi vulnus. Ma il dibattito rimane incandescente.
«Di meno, più grandi e più intensive»
Nel 2021 il prestigioso giornale britannico Guardian dedicò una lunga inchiesta al funzionamento della PAC – allora nella sua edizione 2013-2021. A scriverlo Fiona Harvey, una delle firme di punta del giornalismo ambientale anglosassone. Nel pezzo si racconta come l’80% dei fondi del programma europeo siano finiti ad appena il 20% degli agricoltori. E non è l’unica stortura. L’autorevole think-tank italiano ISPI ha elaborato pochi mesi fa alcuni dati relativi agli anni appena trascorsi. Il risultato è notevole: il 10% più ricco degli agricoltori riceve più della metà dei fondi. Il 50% più povero, di converso, appena il 6%. Le imprese del settore uscite da quella stagione, spiega ancora il Guardian, sono «di meno, più grandi, più intensive».
L’indice è puntato soprattutto sul funzionamento base della PAC, che è di tipo proporzionale. Più ettari si hanno, più fondi si ricevono. Ma questo – è l’accusa di parte della categoria – avvantaggia indebitamente il grande latifondo. Un problema particolarmente sentito in Italia, dove le aziende agricole hanno in media 11 ettari di terreno. Da qui molte delle proteste di questi mesi. Tra il 2005 e il 2020, 5,3 milioni di aziende agricole in Europa hanno cessato le attività. Nello stesso arco di tempo in Italia le imprese del settore si sono dimezzate, e nel solo 2022 3.623 imprese della penisola hanno chiuso i battenti. L’accusa rivolta alla PAC è quella di non fare abbastanza per frenare questo declino.
Il dissenso è condiviso anche dal mondo ecologista, che ai problemi di sostenibilità economica affianca quelli relativi alla sostenibilità ambientale. «È molto grave che l’accordo raggiunto non tenga conto né degli avvertimenti della scienza, né delle richieste dei piccoli agricoltori» scrisse Federica Ferrario, responsabile campagna Agricoltura di Greenpeace Italia, al momento dell’approvazione della PAC 2023-2027. «Non hanno tenuto conto nemmeno del parere della stessa Corte dei Conti europea, che afferma con chiarezza come negli ultimi dieci anni la PAC abbia fallito nel proteggere la biodiversità e nel contrastare i cambiamenti climatici, mentre i sussidi vengono erogati principalmente alle aziende più grandi, lasciando in difficoltà le piccole».
Anche il ruolo delle lobby di settore è stato spesso al centro delle cronache. Secondo Corporate Europe Observatory, uno dei più rispettati osservatori europei sui gruppi d’interesse, una grossa quota dei gruppi di esperti (i cosiddetti dialogue groups) consultati dalla Commissione Europea per la definizione della più recente PAC erano composti da lobbisti.
Una riforma in arrivo?
Janusz Wojciechowski è il commissario europeo per la pesca e l’agricoltura – sostanzialmente, il ministro del settore a livello continentale. Al termine di una complicata sessione del Consiglio, con Bruxelles assediata dalla protesta dei trattori, ha detto alle stampa poche parole capaci di aprire una nuova partita politica. «Se vogliamo far qualcosa per gli agricoltori, possiamo riaprire la discussione sulla PAC già a questo mandato».
Di PAC, insomma, si continuerà a parlare ancora a lungo. E, per chi si occupa di sostenibilità, capirne in profondità i meccanismi è sempre più indispensabile.