Green Deal, Fit For 55, Farm To Fork: cosa è in gioco alle elezioni europee

7 Giugno 2024

L’8 e 9 giugno centinaia di milioni di europei sono chiamati alle urne. Le elezioni europee sono la seconda consultazione democratica più ampia al mondo – la prima è rappresentata dalle elezioni indiane. Le cittadine e i cittadini del Continente sono chiamati a rinnovare il Parlamento Europeo, che approva le leggi dell’Unione ed elegge il presidente della Commissione Europea – quanto di più simile esista ad un governo continentale.

Uno dei lasciti del Parlamento e della Commissione uscenti sono le politiche ambientali, riassunte nell’ombrello di European Green Deal. Questo corposo insieme di obiettivi, limiti e finanziamenti ha dominato il dibattito pubblico europeo, e sulla sua eredità si è combattuta molta della campagna elettorale che si sta chiudendo in queste ore. A promuoverli la presidente Ursula Von der Leyen, esponente della destra moderata tedesca, afferente al Partito Popolare Europeo. I voti in Parlamento sono arrivati da una maggioranza composita: centrodestra popolare, centrosinistra socialista, verdi, centro liberale nel caso delle misure più moderate e sinistra radicale in quelle più ambiziose.

La prossima legislatura deciderà se confermare, rafforzare o iniziare a smontare quanto fatto finora. Per questo è importante, alle urne, sapere cosa c’è in gioco.

European Green Deal: il piano

«Sarà il nostro uomo sulla Luna» diceva nel 2019 una raggiante Ursula Von der Leyen annunciando il lancio dell’European Green Deal. L’espressione New Deal nasce con la presidenza Roosevelt negli Stati Uniti. Con questo termine (tradotto letteralmente come «nuovo patto») ci si riferì ad una serie di misure volte a rilanciare l’economia americana, stagnante dopo la crisi del 1929. Il New Deal storico comportò un boom degli investimenti pubblici, il crollo della disoccupazione e un generale spostamento a sinistra della politica statunitense. L’European Green Deal riprende l’idea di un grande rilancio dell’economia, in questo caso europea, ma allontanandolo dallo statalismo roosveltiano, e legando il tutto alla conversione ecologica.

Il Green Deal è un termine ombrello: di fatto si usa per indicare tutte le misure di transizione intentate dall’Ue. Al momento del lancio si parlava di mille miliardi di euro da investire in cinque anni. L’arrivo della pandemia ha sconvolto i piani (e i bilanci) del mondo. Quando, per rispondere ai danni economici del covid, l’Unione ha stanziato 750 miliardi tramite il Next Generation Eu, si inserì tra le condizioni per l’uso dei fondi che un terzo andasse in investimenti relativi alla decarbonizzazione.

L’European Green Deal indica i due grandi obiettivi su cui si poggia la transizione europea: zero emissioni nette entro il 2050 e -55% delle emissioni, calcolate sui livelli del 1990, entro il 2030. Zero emissioni nette significa raggiungere un punto di equilibrio tra i gas serra emessi e quelli riassorbiti in modo naturale (ad esempio, tramite la vegetazione) o artificiale (con sistemi di cattura della CO2). Sia la scelta di situare lo zero netto a metà secolo, sia la vaghezza del termine netto – che non indica quanta parte delle emissioni sia da riassorbire, e come – hanno suscitato le critiche di parte dell’ecologismo. Il centro studi Carbon Action Tracker sostiene che gli impegni europei non siano in linea col rispetto degli Accordi di Parigi, e la Danimarca ha proposto di inserire un nuovo obiettivo (-90% delle emissioni al 2040) per aumentare l’ambizione. Sarà il Parlamento eletto nei prossimi giorni a decidere.

Fit for 55, il vero terreno di scontro

Se è il Green Deal strictu sensu a fornire gli obiettivi, il Fit for 55 da corpo al target più urgente, quello al 2030. Si tratta di un voluminoso pacchetto di misure, frutto di una lunghissima negoziazione tra Parlamento, Commissione e Consiglio, che tocca più ambiti. Sono 14 i campi di intervento individuati dai legislatori europei: perdite di metano, mobilità su gomma, tasse sull’energia, rinnovabili, efficienza energetica, edilizia, abbandono graduale del gas, riforma del sistema di scambio delle emissioni, rifiuti, uso della terra e foreste, trasporti, emissioni esterne all’Ue, transizione giusta e settore navale e aereo.

Molte delle misure più discusse degli ultimi anni rientrano nel Fit for 55. La famosa direttiva case green, come è stata soprannominata dalla stampa italiana, è un esempio. Il 40% dei consumi energetici europei derivano dagli edifici, il 36% delle emissioni. Secondo i calcoli dell’Unione, il 75% degli edifici europei richiede interventi di efficientamento. Per questo si è deciso che i nuovi edifici devono essere a zero emissioni a partire dal 2028, per quanto riguarda l’edilizia pubblica, e dal 2030 per gli edifici privati. Ma il cuore della questione sta nelle costruzioni esistenti. L’obiettivo è il net zero al 2050: per arrivarci si sono imposti agli Stati una serie di obiettivi intermedi in termini di efficientamento energetico. Starà ai governi capire come finanziarli.

Anche le novità in campo automotive sono parte del Fit for 55. La misura più importante è anche la più celebre: dal 2035 sarà vietata l’immatricolazione di nuove auto a combustione. Faranno eccezione i combustibili sintetici, se provati essere a zero emissioni, e le supercar la cui produzione rimane sotto i mille esemplari l’anno. Una decisione, quella del ban al 2035, molto criticata dalle destre di tutto il Continente.

Terzo tassello fondamentale del Fit for 55 è il Carbon Border Adjustament Mechanism (Cbam). Si tratta di una misura che risponde ad una delle più classiche paure relative alla transizione: il rischio che il mercato continentale sia invaso di prodotti esteri, più economici perché non sottoposti alle stesse norme ecologiche dell’Europa. Per questo si è deciso di applicare un dazio alle frontiere sui beni importati. L’entità della tassa è calcolata sulla base dell’Emission Trading System, il sistema di tasse e crediti di carbonio europei.

Farm to Fork, la politica a metà

Il 14% delle emissioni globali è dovuto al settore agroalimentare, spiega la Fao – l’agenzia Onu che si occupa di cibo e alimentazione. Il 25% delle emissioni globali, spiega il foro intergovernamentale sul cambiamento climatico (Ipcc), va ricondotto a sistemi alimentari e cambio d’uso di suolo. Numeri che rendono chiara la centralità delle politiche agroalimentari. L’Unione Europea ha varato per questo la strategia Farm to Fork, letteralmente «dalla fattoria alla forchetta». L’obiettivo è ridurre del 50% l’uso di pesticidi chimici entro il 2030, dimezzare la perdita di nutrienti garantendo al contempo che la fertilità del suolo non si deteriori tramite il taglio di almeno il 20% dei fertilizzanti entro lo stesso anno. Inoltre, si mira a ridurre del 50% le vendite totali di antimicrobici per gli animali d’allevamento e di antibiotici per l’acquacoltura entro il 2030, e a trasformare il 25% dei terreni agricoli in aree destinate all’agricoltura biologica entro la stessa data.

L’azione di Farm to Fork è limitata però dalla Politica Agricola Comune (Pac). La più antica delle politiche europee, che consuma oltre un terzo del bilancio comunitario. Del suo funzionamento, e delle sue pecche ambientali, abbiamo scritto qui.

Tassonomia europea, infine

«Nessuno Stato ha abbastanza soldi per fare la transizione» diceva alla Cop28 di Dubai John Kerry, l’inviato speciale per il clima statunitense. Mobilitare fondi privati, e spostarli da settori ad alto impatto, è un passaggio cruciale della transizione ecologica. Anche per questo l’Unione Europea ha varato la tassonomia ambientale, una classificazione dei settori d’investimento in base alla loro sostenibilità. Nelle intenzioni, la tassonomia serve a indirizzare gli investitori verso comparti verdi.

Anche qui, però, il dibattito politico che ha preceduto la sua approvazione ha lasciato alcuni scontenti. Il caso è l’inserimento di nucleare e, sopratutto, gas nell’elenco dei settori verdi: l’ecologismo storico denuncia il tradimento.