L’Agenda 2030 è sicuramente uno dei documenti più citati al mondo. Dal suo lancio nel 2015 si è fatta strada nelle scuole, nelle università, negli speech dei politici e nel lessico aziendale. Non è raro in ambiente accademico che corsi di laurea o programmi di dottorato siano proposti come conformi a questo o quell’obiettivo dell’agenda, e chi frequenta il mondo finanziario sa bene quanto fondi e titoli venduti come sostenibili basino la loro credibilità proprio sull’aderenza ai principi dell’Agenda.
Questa enorme popolarità, però, non coincide con l’applicazione su larga scala. Fin dalla sua presentazione l’Agenda 2030 è stata accusata di essere destinata al fallimento, e ogni anno ong e think-tank lanciano allarmi sul cattivo stato di salute di alcuni degli obiettivi contenuti nel documento. Con l’arrivo della pandemia da covid-19, poi, si sono diffuse teorie cospirazioniste che mettono al centro proprio l’Agenda 2030 e suoi presunti scopi segreti.
Agenda 2030 e gli Obiettivi di Sviluppo sostenibile: di cosa parliamo?
Il modo più corretto per riferirsi al programma in oggetto è Obiettivi di sviluppo sostenibile. Il nome Agenda 2030 deriva dal documento col quale questi obiettivi vennero lanciati: Trasformare il nostro mondo. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Si tratta di un corposo insieme di traguardi da raggiungere a livello globale entro l’anno 2030. Autore del programma è l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Il primo tassello di quelli che diventeranno gli obiettivi di sviluppo sostenibile (o SDGs, nel loro acronimo inglese) viene posto nel 1992 a Rio de Janeiro, nel corso di un celebre incontro di cui abbiamo già parlato altrove. In quel meeting, noto alle cronache dell’epoca come Summit della Terra ma in realtà intitolato Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, parteciparono tutti i governi del Pianeta. Fu la prima volta in cui le nazioni aderenti all’Onu misero nero su bianco la necessità di concordare a livello globale la risposta ad una serie di sfide unanimamente ritenute tali – l’accesso alle risorse primarie, la pace, la lotta alle malattie e all’analfabetismo, l’uguaglianza di genere, le crisi ecologiche. Vent’anni dopo, nel 2012, un’altra Conferenza – pensata come prosecutrice di quella del ‘92 – venne lanciata dall’allora segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon: la Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile. È questo secondo incontro la sede in cui vengono negoziati gli SDGs. L’assemblea generale dell’Onu li approverà tre anni dopo, nel 2015, con la risoluzione 70/1.
Da quel momento il documento diventa vincolante per tutti gli Stati del Pianeta.
Pace, cibo, salute, lotta al cambiamento climatico: cosa prevedono gli SDGs
Gli obiettivi di sviluppo sostenibile si compongono di 17 goal, a loro volta divisi in 169 target – traguardi parziali che concorrono al raggiungimento dell’obiettivo. Lo scopo dichiarato è quello di soddisfare tutti e diciassette i punti per tutta l’umanità entro il 2030.
Alcuni obiettivi sono prevalentemente di carattere sociale. La cosiddetta Agenda 2030 mira a sconfiggere la povertà (goal 1), la fame (goal 2), assicurare salute e benessere (goal 3), garantire uguaglianza tra i generi (goal 4), istruzione di qualità (goal 5), accesso all’acqua (goal 6) e all’energia pulita (goal 7). Altri sono più strettamente relativi all’universo dell’economia: il goal 8 mira a garantire crescita e lavoro dignitoso, il 9 a promuovere innovazione, infrastrutture e imprese resilienti, il 10 a ridurre le disuguaglianze. Molto spazio, infine, è riservato alle tematiche ecologiche: la sostenibilità degli insediamenti urbani (goal 11), la produzione e il consumo sostenibili (goal 12), la lotta al cambiamento climatico (goal 13), il rispetto della vita sottomarina (goal 14) e terrestre (goal 15). Su tutti, poi, spiccano due obiettivi ombrello: la partnership tra nazioni per il raggiumento di tutti i punti precedenti (goal 17) e, sopratutto, la pace stabile e duratura, goal numero 16.
I target sopra citati servono ad arricchire di traguardi misurabili i diciassette goal. Il punto 1 ad esempio, l’eliminazione della povertà, si sostanzia di un target quale «l’eliminazione della povertà estrema per tutte le persone in tutto il mondo, attualmente misurata come persone che vivono con meno di $1,25 al giorno». Il goal 3, relativo alla salute, punta entro il 2030 tra le altre cose a «ridurre il tasso di mortalità materna globale a meno di 70 per 100.000 nati vivi», a «porre fine alle epidemie di AIDS, tubercolosi, malaria e malattie tropicali trascurate e combattere l’epatite, le malattie legate all’uso dell’acqua e altre malattie trasmissibili» e a «dimezzare il numero di decessi a livello mondiale e le lesioni da incidenti stradali».
A che punto siamo?
Il 2023 ha segnato la prima vera milestone dell’Agenda 2030. L’anno concluso è infatti esattamente a metà del percorso che parte dal 2015 e arriva alla fine del decennio corrente. Inevitabilmente è stata occasione di bilanci per ong e accademia. I risultati sono misti e contradditori, ma tra gli analisti prevale la preoccupazione.
Nel nostro paese una delle fonti più autorevoli e citate per valutare lo stato dell’arte dell’applicazione degli SDGs è l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis). Ogni anno, a fine anno, pubblica un corposo report che valuta i progressi fatti in Italia e in Europa. L’ultima edizione è dell’ottobre del 2023. I ricercatori di Asvis individuano sei punti su diciassette su cui l’Italia ha mostrato «miglioramenti contenuti», ossia inferiori al 10% in 12 anni. Si tratta di istruzione, parità di genere, energia rinnovabile, lavoro dignitoso, innovazione e infrastrutture, lotta al cambiamento climatico. Due punti vedono un miglioramento più netto: salute ed economia circolare. Per tutto il resto c’è stabilità (su cibo, disuguaglianze e città sostenibili) o addirittura, in sei casi, peggioramenti. L’Italia fa peggio che nel 2015 su povertà, sistemi idrici e sociosanitari, qualità degli ecosistemi terrestri e marini, governance e partnership. Il giudizio complessivo è, scrivono gli esperti di Asvis, «decisamente insufficiente».
L’Unione Europea nel suo insieme fa meglio, ma è anch’essa lontana dall’allinearsi al percorso verso il 2030. «Posti uguali a 100 i valori del 2010 degli indici compositi calcolati dall’ASviS sulla base dei dati pubblicati da Eurostat, nel 2021 si registra per 12 Goal un aumento inferiore o molto vicino al 5% (l’indice composito non è stato calcolato per il Goal 14 a causa di mancanza di informazioni. Per i Goal 6 e 11 l’ultimo anno disponibile è il 2020). Solo in un caso (Goal 5) si registra un aumento nettamente superiore, mentre per tre Goal si nota addirittura un peggioramento» si legge nel report. Sono sopratutto tre i punti critici per il Continente europeo. In primis la lotta alle disuguaglianze – in calo ma mai tornate sotto i livelli della crisi del 2008. Poi le città sostenibili, che dopo anni di miglioramento peggiorano a causa di un aumento dell’utilizzo delle auto. Infine la lotta alle emissioni climalteranti, che hanno subito – come in tutto il mondo – un pesante rimbalzo a seguito della ripresa post pandemica.
Sia dentro i confini italiani sia dentro quelli europei pesano le disugaglianze territoriali. Della penisola da conto Istat. Nel 2022 sono le provincie autonome di Trento e Bolzano a guidare la crescita di quasi tutti gli obiettivi. Nell’insieme il nord-est è la macroarea di maggior successo, mentre sud e isole chiudono la classifica. A livello europeo è il Sustainable Development Solutions Network a fornire i dati. Le nazioni del nord sono le più virtuose, seguite da Europa occidentale e paesi Efta (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). L’area mediterranea, che comprende l’Italia, è quarta. In fondo alla classifica l’est.
Cosa funziona e cosa manca
L’Agenda 2030 è a tutt’oggi il più ambizioso tentativo di concertare politiche globali a tutto tondo. La Spagna nel 2020 è stata il primo paese al mondo a dotarsi di un Ministero dell’Agenda 2030, e ovunque gli SDGs sono presi a riferimento dalle forze progressiste. Nel mondo corporate sulla scia degli SDGs è nato l’acronimo esg – environment, social and governance. Si tratta dei parametri ambientali, sociali e di gestione che permettono di classificare un’impresa come sostenibile.
Al contempo, non sono mancate negli anni le critiche. La mancanza di un criterio universalmente valido per la valutazione degli esg ha attirato accuse di greenwashing. Il mondo ecologista più radicale critica il concetto stesso di sviluppo sostenibile. L’idea, cioè, che si possa perseguire una crescita economica potenzialmente illimitata diminuendo al contempo l’impatto ambientale delle attività umane. Da destra, al contrario, si sono diffuse teorie cospirazioniste sull’uso dell’Agenda 2030 come strumento per imporre politiche autoritarie.
Il bilancio degli obiettivi di sviluppo sostenibile è sicuramente in chiaroscuro. Ma sarebbe ingeneroso decretarne il completo fallimento. Dal 2015 ad oggi la povertà e la fame sono crollate – sopratutto grazie allo sforzo di paesi asiatici come la Cina. Le politiche di contrasto al riscaldamento globale, pur ancora insufficienti a rispettare gli obiettivi stabiliti a livello internazionale, hanno allontanato il Pianeta da alcuni degli scenari peggiori. La partita per un mondo migliore in più sensi, insomma, è ancora aperta.