Armi, biodiversità, desertificazione: tutte le Cop di cui non hai mai sentito parlare

27 Marzo 2024

Alla fine di dicembre del 2023 era appena tornato da Dubai, dove avevo partecipato come giornalista a Cop28, l’incontro negoziale delle Nazioni Unite sul riscaldamento globale. Si era trattato di un meeting lungo due settimane, che avevo seguito ampiamente anche sui miei social. Un mattino, quando ancora non avevo finito di disfare la valigia, mi arriva su Instagram il messaggio di un conoscente. Condivide con me un video di Susana Muhamad, ministra dell’ambiente del governo colombiano che proprio al summit di Dubai aveva ottenuto un boom di popolarità a livello globale. Nel video la ministra svela il logo dell’incontro che lei stessa presedierà nell’ottobre del 2024 nella città di Cali: Cop16. «Ma come sedici? Non sei appena tornato dalla ventottesima edizione?» era il messaggio che accompagnava il filmato.

L’equivoco in cui è caduto il mio conoscente è frequente, e merita una spiegazione approfondita. Il termine Cop è l’abbreviazione di Conference of Parties, conferenza delle parti. Indica nel lessico del diritto internazionale gli incontri ufficiali tra i firmatari di un trattato. Il lemma «conferenza» si può tradurre più correttamente con «negoziato», mentre le «parti» sono tipicamente gli Stati. La Cop dedicata al clima è di gran lunga il più famoso di questi incontri. Si riunisce una volta l’anno, ogni volta in una città diversa, e mette assieme tutti i Paesi firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul contrasto al riscaldamento globale (Unfccc la lunga sigla inglese). Documenti ormai entrati nell’immaginario comune come i Protocolli di Kyoto o gli Accordi di Parigi sono stati firmati durante queste conferenze. Il summit di Dubai dal quale ero appena tornato quando mi arrivò quel messaggio su Instagram è l’ultima edizione di questo negoziato. L’urgenza dell’azione contro l’aumento delle temperature medie, la capillarità delle politiche climatiche – che toccano settori chiave come energia, trasporti, industria, finanza – e non da ultimi i movimenti per la giustizia climatica emersi negli ultimi anni hanno reso la Cop sul clima (o Cop Unfccc, nella scomoda ma corretta terminologia ufficiale) sinonimo di Cop nella percezione comune.

Ma sono molti altri i trattati internazionali costantemente aggiornati da Conferenze delle parti. Le Cop sono tante, e riguardano temi chiave del nostro presente. Le regole, gli obiettivi e i governi partecipanti variano, ma il format rimane simile. In tutti i casi si tratta di incontri periodici partecipati da migliaia di persone, quasi sempre organizzati da specifiche diramazioni delle Nazioni Unite. A negoziare sono sempre squadre di delegati nominate dagli esecutivi. Nella maggioranza dei casi i Paesi trattano per blocchi: l’Unione Europea, ad esempio, tende ad avere una posizione unitaria in questi contesti. Le decisioni vengono normalmente prese per consenso: i diplomatici trattano fino a raggiungere una bozza, che è approvata nel corso di un’assemblea plenaria se nessuna nazione si oppone.

Biodiversità e desertificazione: le altre Cop ambientali

La Cop16 di cui parlava il video della ministra colombiana è la Cop della biodiversità. Più correttamente, si tratta della sedicesima edizione della Conferenza delle parti firmatarie della Convenzione sulla biodiversità biologica (Cbd). Lo scopo della Convenzione, e delle Cop che la seguono, è quello di salvaguardare la diffusione delle varie specie animali e vegetali. Nasce nel 1992, in un incontro passato alla storia: il Summit di Rio o, come lo chiamarono i media all’epoca, il Summit della Terra. Fu la prima volta in cui i governi del mondo si riunirono, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per affrontare i problemi ecologici del Pianeta. In quella stessa occasione nacque l’Unfccc, di cui abbiamo parlato prima, e la Convenzione contro la desertificazione (Unccd nella sigla inglese). Ci arriveremo.

L’esigenza di un trattato sulla biodiversità nasce dalle evidenze scientifiche. Il tasso di estinzione delle specie – la velocità, cioè, con cui le specie scompaiono – è almeno cento volte più veloce oggi di quanto non lo sia naturalmente. Le ragioni di questo fenomeno sono antropiche, legate all’attività umana. La distruzione degli habitat è la prima causa: deforestazione e allargamento degli spazi umani (per costruire città, campi, dighe) riducono per molti animali e vegetali la possibilità di riprodursi e trovare nutrimento. Crisi climatica, uso di pesticidi e caccia indiscriminata fanno il resto.

La prima Cop sulla biodiversità si tenne a Nassau, capitale delle Bahamas, nel 1994. A differenza di quanto avviene per le conferenze sul clima, l’appuntamento non è annuale. Ad aderire sono tutte le nazioni risconosciute dall’Onu tranne una: gli Stati Uniti d’America. Benché Washington abbia partecipato alla stesura del trattato fondativo e lo abbia firmato, infatti, il Congresso non ha mai ratificato la decisione. L’ultimo presidente ad aver tentato di convincere i parlamentari, senza successo, fu Bill Clinton.

Le Parti si sono riunite per l’ultima volta nel 2022 a Montrèal, in Canada, per Cop15. Come per gli incontri Unfccc, la sede ruota di edizione in edizione e con lei la presidenza. In questo caso la location prescelta era Kunming, in Cina, ma le rigide restrizioni ancora in vigore per via della pandemia hanno fatto optare per un repentino trasferimento. In quell’occasione si stabilì un importante obiettivo, popolarizzato come 30 by 30. Si tratta della promessa, condivisa tra tutti i paesi partecipanti, di proteggere il 30% delle terre e delle aree marine del Pianeta entro il 2030. A Cali i delegati decideranno la roadmap per il raggiungimento di questi impegni.

Simili le vicissitudini della Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione, o Unccd. Anche lei nasce a Rio nel 1992, anche lei ha avuto la sua prima Cop pochi anni dopo: nel 1997 a Roma. Tutti i Paesi riconosciuti dalle Nazioni Unite – tranne il Vaticano – ne fanno parte. Solo Il Canada abbandonò brevemente i lavori nel 2013, per rientrarci nel 2017. Nonostante gli sforzi, le Cop sul contrasto alla desertificazione hanno per ora ottenuto pochi risultati e anche per questo sono sostanzialmente sconosciute al grande pubblico. L’ultimo summit si è svolto ad Abidjan, in Costa d’Avorio, nel 2022.

Armi nucleari e armi chimiche: le Cop contro la guerra

Le più celebri delle Cop sono legate alle politiche ambientali. Ma c’è un altro settore su cui insistono molti trattati: la riduzione degli armamenti.

Il Trattato per la non-proliferazione delle armi nucleari è un capostipite dei grandi accordi multilaterali. Negoziato tra il 1965 e il 1968, è entrato in vigore nel 1970. Gli anni, in questo caso, sono cruciali. Poco tempo prima si era chiusa la crisi missilistica cubana, il momento di massima tensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. La paura di un confronto nucleare è diffusa nelle opinoni pubbliche come tra le classi dirigenti, e per evitare lo scenario di una guerra atomica dalle conseguenze imprevedibili da più parti si chiede un negoziato internazionale. L’incarico viene affidato dalle Nazioni Unite al Comitato delle diciotto Nazioni, un gruppo intergovernativo che riuniva sia Paesi del blocco occidentale sia Paesi della sfera sovietica. Il Trattato di non-proliferazione è il risultato di quella stagione. Il documento prevede lo stop alla costruzione di nuove testate per chi già le possiede al momento della firma, il divieto di dotarsene per chi ne è privo e la graduale distruzione concordata degli arsenali esistenti.

L’accordo conta oggi 191 nazioni aderenti, comprese le principali potenze nucleari: Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito, Cina. Rimangono fuori solo India, Israele, Pakistan, Corea del Nord e Sud Sudan. Ad eccezione dell’ultimo, si tratta di paesi dotati di armi atomiche. La Cop sul tema si riunisce ogni cinque anni, e nel tempo ha affrontato temi caldi come la fine della guerra fredda e la crisi dell’atomica iraniana.

Il Trattato di non-proliferazione e le rispettive Cop sono generalmente considerate un modello di successo della diplomazia multilaterale. L’accordo riuscì efficacemente ad arrestare la diffusione degli ordigni nucleari, e pose un limite importante alla cosiddetta corsa al riarmo del secolo scorso. Al contempo, il processo di distruzione degli arsenali è bloccato da anni – e molte importanti nazioni sono rimaste fuori dall’accordo.

La Convenzione sulle armi chimiche è la sorella minore del Trattato di non-proliferazione. Firmata nel 1993 ed entrata in vigore nel 1997, ha come scopo lo stop alla produzione, lo sviluppo, l’accumulo e l’uso delle armi chimiche, e mira a distruggere nel tempo tutti gli arsenali esistenti. Solo Egitto, Nord Corea e Sud Sudan sono rimaste fuori dall’accordo, mentre Israele lo ha firmato ma mai ratificato. Si tratta del punto di arrivo di un percorso in realtà lunghissimo. Fu la Prima guerra mondiale a radicare nell’opinione pubblica l’idea che le armi chimiche siano troppo pericolose per essere usate persino in scenari bellici. I Protocolli di Ginevra del 1925 rappresentarono il primo tentativo di vietarle, ma è la Convenzione il caso di maggior successo. L’Organizzazione per il bando delle armi chimiche (Opcw) – che gestisce le Cop scaturite dalla Convenzione – ha dichiarato di aver verificato la distruzione del 98% degli arsenali chimici nel 2021, mentre con l’ingresso della Siria nel 2013 si è fatto un passo avanti nella risoluzione dell’annosa guerra civile siriana. Anche in questo caso, però, non mancano le criticità. Le armi chimiche sono ancora in uso in diversi contesti. Si hanno prove del loro utilizzo sia in Siria da parte del governo Assad sia, più recentemente, nell’invasione israeliana di Gaza.

Ma le Cop funzionano?

Negli anni il formato Cop ha goduto di grande popolarità. Assieme a quelle appena raccontate, in ambito Nazioni Unite si sono aggiunte le Conferenze sul contrasto alla diffusione del tabacco, contro l’inquinamento da plastica, contro la corruzione, contro il traffico illegale di specie animali. Sull’efficacia di questo genere di incontri, però, si continua a dibattere.

I critici sottolineano come gli obiettivi indicati nelle diverse Convenzioni siano spesso disattesi. La più famosa delle Cop, quella sul contrasto al riscaldamento globale, è l’esempio tipico. I target stabili a Cop21, i celebri Accordi di Parigi, sono sul punto di essere infranti, e la comunità scientifica è unanimemente pessimista. Anche altri accordi collatterali – come lo stanziamento di 100 miliardi di dollari annui per la transizione nei Paesi del cosiddetto Sud globale – sono ancora insoddisfatti. Sul banco degli imputati c’è il meccanismo del consenso – che rende inevitabilmente lente le svolte negoziali e permette anche ad un solo Paese di bloccare un accordo – e l’influsso delle lobby.

Chi difende le Cop, al contrario, ne evidenzia i successi. Gli Accordi di Parigi hanno portato ad una stagione di politiche climatiche che, per quanto insufficienti, hanno allontanato il mondo da alcuni degli scenari peggiori, come confermano diversi studi. E Trattati storici come quello relativo alle armi nucleari sono tutt’oggi esempi di successo della diplomazia. In molti, inoltre, sottolineano l’importanza di investire nel multilateralismo. A differenza di summit come G7 o G20 – aperti ad una piccola cerchia di Paesi – le Cop includono tutti gli Stati che intendono farne parte. Questo permette di rappresentare paritariamente l’intera umanità. «Le Cop sono l’unico spazio in cui i paesi poveri stanno allo stesso tavolo dei ricchi» ha detto il giornalista Ferdinando Cotugno, che da anni segue le Conferenze Unfccc sul clima.