ESG è l’acronimo attorno al quale sono girate molte delle novità nel mondo finanziario e corporate degli ultimi anni. Se ne è parlato a lungo per la loro grande diffusione, ma anche per i limiti e gli scandali che talvolta li hanno riguardati. Comprenderli a fondo oggi è vitale per chi investe – anche piccoli e piccolissimi risparmiatori – come per chi fa impresa.
Le basi: cosa sono, a cose servono, dove li trovo
ESG è l’acronimo risultante dalle tre parole inglesi environment, social e governance. Sono quei parametri ambientali, sociali e di gestione che permettono di classificare un’azienda o un prodotto finanziario come sostenibili. Il principio alla base è semplice: organizzazioni specializzate – talvolta le stesse agenzie di rating che valutano la solidità economica di Stati e aziende – attribuiscono a imprese, azioni, fondi d’investimento un giudizio di sostenibilità, espresso ora come voto, ora come inclusione o meno in liste d’investimenti consigliati. Nelle intenzioni, queste classifiche servono da guida a chi intende investire i propri soldi – dal grande fondo al piccolo risparmiatore.
I criteri di assegnazione dei rating dipendono da chi se ne incarica – torneremo su questo punto. Ma in tutti i casi girano attorno alla sostenibilità ambientale e sociale e la trasparenza nella governance. Sono premiate, ad esempio, aziende (o prodotti finanziari legati ad aziende) che disinvestono dal fossile, che hanno road-map misurabili e ritenute credibili per il raggiungimento delle zero emissioni nette, che certificano il rispetto dei diritti sindacali nei propri luoghi di lavoro e lungo la filiera, che dimostrano impegno in termini di contrasto alla corruzione. Negli anni è nato un termine per descrivere questo pezzo di finanza: impact investing.
La crescita di questo mercato ha portato ad un boom delle imprese specializzate nella valutazione ESG. Nel 2022, secondo l’European Securities and Markets Authority, nella sola Unione Europea ne erano attivi 59. Una manciata di grandi player, però, è responsabile di molti dei rating in circolazione. MSCI ESG, con sede a New York, è di gran lunga la più grande tra le realtà del settore. L’olandese Sustainalytics, controllata dalla statunitense Morningstar, è la seconda. Institutional Shareholder Services occupa il terzo gradino del podio, Standard e Poor’s il quarto, Moody’s il quinto.
La storia e i numeri degli ESG
Di ESG si comincia a parlare all’inizio del millennio. Nel 1999 l’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan lancia il Global Compact, un patto tra governi ed aziende di tutto il mondo rivolto a riempire di contenuto quella che già al tempo era nota sostenibilità sociale d’impresa. L’idea era quella di offrire una cornice dove corporation, società civile, politica, gruppi sindacali e città potessero cooperare per raggiungere risultati in termini di riduzione dell’inquinamento, lotta alle disuguaglianze, trasparenza. Nel 2004 venti grandi banche occidentali aderenti al Global Compact pubblicano Who Cares Wins, un corposo manifesto che segnerà la nascita dell’impact investing. È in quel momento che l’acronimo ESG diventa popolare in giro per il mondo.
Alla fine del 2023 il patrimonio globale dei fondi ESG si aggirava attorno ai 3 mila miliardi di dollari, in crescita dell’8% rispetto al trimestre precedente. Un’aumento guidato dall’Europa, il continente in cui storicamente questi investimenti hanno attecchito maggiormente.
Il miraggio degli ESG, spiegato
Il mondo degli investimenti ESG è da anni lontano dal rappresentare una nicchia irrilevante. Ma assieme alla popolarità sono inevitabilmente arrivate critiche e indagini. «Il miraggio degli ESG» è il titolo di una lunga inchiesta del 2021 di Bloomberg – testata legata all’omonimo gruppo finanziario che, peraltro, si occupa anche dei rating di sostenibilità. «Gli ESG falliranno se non passano dal mettere spunte su elenchi all’azione» scrive nel 2024 il Times di Londra. Ancora più lapidario Marcos Athias Neto, direttore dell’hub finanza sostenibile dell’UNDP, l’agenzia Onu per lo sviluppo: «Perché gli ESG stanno fallendo la sfida dello sviluppo sostenibile» è il titolo di un suo editoriale.
I casi controversi sono molti. Adani Port è l’azienda che gestisce la principale rete portuale dell’India, parte del gigante economico Adani Group. Nonostante la sua principale fonte di guadagno consista nel trasportare carbone, il più inquinante dei combustibili fossili, e nonostante le accuse di rapporti col regime militare del Myanmar, l’azienda è considerata responsabile da molti analisti. Al 2022 era inclusa in quattro indici ESG (CTB Emerging Markets ESG Enhanced Focus, ACWI Low Carbon Target, Emerging Asia ESG e FTSE4Good Emerging) e godeva di una rispettabile B nella classificazione della no-profit CDP in materia di contrasto al riscaldamento globale. Ancora più vistosi altri esempi. McDonald’s ha visto un miglioramento nel suo rating tra il 2020 e il 2021, raggiungendo un solido BBB su una scala da CCC ad AAA. Questo, nonostante le sue emissioni siano aumentate del 7% nei quattro anni precedenti alla valutazione. La banca d’affari statunitense JP Morgan ha investito 317 miliardi di dollari nei combustibili fossili dopo l’Accordo di Parigi del 2015, rendendosi così la principale istituzione finanziaria ostile al clima secondo il rispettato rapporto Banking on Climate Chaos. Tuttavia, secondo MSCI, JP Morgan è considerata in linea con gli impegni climatici e merita un voto A.
Cosa non funziona e cosa sta iniziando a cambiare
La prima critica mossa al sistema ESG è la mancanza di uniformità. Non esistono criteri univoci per assegnare giudizi di sostenibilità, o per includere ed escludere un’azienda da un fondo contrassegnato come responsabile. Ogni ente valuta a suo modo, e ciò che non è sostenibile per un’agenzia finisce spesso con l’esserlo per un’altra. Un problema arrivato anche alla scrivania dei decisori politici. Da anni si parla della possibilità di istituire un ente regolatore mondiale che fornisca linee guide alle aziende specializzate in rating. Nel febbraio del 2024 l’Unione Europea ha raggiunto un primo accordo su un nuovo sistema di regole interno al Continente: quando sarà in vigore, gli analisti per operare dovranno ottenere il via libera dell’European Securities and Markets Authority, l’apposita agenzia UE. Permesso che arriverà, è la promessa, solo se è garantito il rispetto di rigorosi standard di trasparenza.
L’altro grande vulnus è il conflitto d’interessi – una questione lungamente affrontata dopo la crisi del 2008 per quanto riguarda i classici giudizi di solvibilità. Le aziende che forniscono servizi di rating sono spesso a loro volta impegnate in attività d’investimento. Una mancanza di demarcazione tra controllore e controllato che spaventa gli esperti. Sempre l’Unione Europea, che rappresenta il principale mercato mondiale per i fondi ESG, aveva discusso la possibilità di imporre una separazione netta tra i due ruoli. Ma la proposta non ha trovato consenso ed è stata, per ora, accantonata,
C’è, infine, la questione di cosa significhi sostenibilità. In alcuni rating questa è definita come «resilienza di un’azienda ai rischi ambientali, sociali e di governance a lungo termine». Si cerca di misurare, insomma, se le esternalità negative di tipo ambientale e sociale sono un rischio per il modello di business più che per la società nel suo insieme. Una sfumatura che fa la differenza.
Il fenomeno degli ESG ha contribuito a spostare una parte dei flussi finanziari globali su settori puliti e ha reso più difficile finanziare progetti inquinanti o legati a violazioni di diritti umani e sindacali. Ma la sola presenza di un’azienda, un fondo d’investimento o un prodotto finanziario su un indice ESG non è ancora sufficiente a garantirne la sostenibilità. Per chi è alla ricerca di investimenti etici, insomma, è sempre bene scavare a fondo nelle realtà alle quali si vogliono affidare i propri soldi.
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