Se non fosse per una lettera di troppo, sembrerebbero degli aerei. E in effetti il nome venne scelto nel Regno Unito durante l’era di Boris Johnson, uno che di slogan immaginifici se ne intendeva. Per un po’ sono sembrati il futuro della finanza climatica globale, un punto di svolta nella transizione ecologica. Ma molto velocemente sono entrati in crisi, invecchiati di colpo in un mondo che sembra guardare altrove. Ora potrebbero – condizionale più che mai dovuto – tornare centrali grazie alla volontà di una nazione (relativamente) piccola che, però, ha l’ambizione di diventare una potenza dell’economia verde: la Colombia.
Stiamo parlando dei JETP, i Just Energy Transition Partnership.
JETP: cosa sono e chi li usa
Prima di giungere a Bogotà, capitale colombiana, questi strumenti sono passati da Pretoria, Londra, Giacarta. Ma la città da cui originano è Glasgow, in Scozia. Qui nel 2021 si svolse COP26, il ventiseiesimo incontro negoziale delle Nazioni Unite sul contrasto al riscaldamento globale. Una location dal forte valore simbolico: «in questo luogo ha avuto inizio la rivoluzione industriale, e in questo luogo inizierà la rivoluzione verde» proclamò all’epoca un entusiasta Boris Johnson, al tempo primo ministro britannico. La frase si rivelò col tempo quantomeno esagerata, ma sul momento le aspettative generate dal summit erano molte. E un pezzo fondamentale della sua eredità risiede proprio negli Accordi per la giusta transizione energetica, o JETP nel loro acronimo inglese.
Si tratta di un termine in realtà largo, la cui definizione è più politica che legale. Si tratta in estrema sintesi di meccanismi di cooperazione finanziaria grazie ai quali uno o più paesi industrializzati finanziano elementi di transizione energetica in una nazione in via di sviluppo. In particolare, questi accordi nascono dall’esigenza di «tirare a bordo», come scriveva all’epoca la stampa specializzata, paesi fortemente dipendenti dal carbone: metterli in condizione, cioè, di abbandonarlo in tempi rapidi. Un modo di dare un’accelerata alle misure di finanza climatica negoziate in sede di Nazioni Unite e da sempre in difficoltà – ne abbiamo parlato anche in occasione della recente COP29 di Baku.
Il primo JETP è stato quello relativo al Sudafrica, dal lunghissimo nome South Africa Just Energy Transition Investment Plan. Venne siglato proprio nel corso del summit di Glasgow, e impegna 8.5 miliardi di dollari statunitensi. A ricevere il governo di Pretoria, a dare Regno Unito, Germania, Francia, Stati Uniti ed Unione Europea. L’obiettivo dichiarato era quello di aiutare il Sudafrica a rispettare il suo NDC, ovvero gli impegni di decarbonizzazione presi a livello internazionale: in larga parte, si tratta di misure relative all’abbandono del carbone. La nazione di Nelson Mandela e degli afrikaans è il Paese del G20 con più carbone in assoluto nel mix energetico: oltre il 70%, secondo l’International Energy Agency. In una nazione peraltro segnata da frequenti blackout e povertà energetica diffusa.
L’ambizione dei proponenti – in primis il governo Johnson – era quella di creare un modello replicabile, e così è stato. Nel 2022, durante il G20 di Bali, viene annunciato un JETP per l’Indonesia con la partecipazione di tutti i Paesi G7, quindi anche l’Italia. L’importo previsto è di 20 miliardi di dollari, e l’obiettivo nuovamente l’allontanamento dal carbone. Nel 2023 è la volta di Senegal e Vietnam. Il primo riceve la promessa di 2.5 miliardi da Francia, Germania, Regno Unito, Canada ed Unione Europea; il secondo 15.8 miliardi dallo stesso gruppo di contributori. Le cifre annunciate non provengono interamente dai bilanci pubblici: ai soldi degli Stati si aggiungono capitali delle banche multilaterali di sviluppo – come Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale – e capitali privati.
«Hanno solo un problema: non funzionano»
A cavallo tra 2022 e 202e si raggiunge il culmine del successo per i JETP. Dopo il lancio dei quattro sopra elencati la stampa specializzata dà notizia di trattative in corso per altre partnership relative a India, Mongolia, Kenya, Nigeria, Marocco, Costa d’Avorio. Ma è anche il momento in cui questo modello inizia a mostrare tutti i suoi limiti.
Un report del 2024 intitolato Apocalypse Soon mette in luce una serie di criticità dei piani di transizione vietnamiti finanziati tramite JETP. A redarlo Project 88, una ong con base a Bangkok molto critica verso il governo di Hanoi. La prima criticità individuata dagli attivisti risiede nella qualità della finanza offerta: secondo quanto risulta dal report, solo il 2% dei soldi sarebbe arrivato sotto forma di non-refundable grants, ovvero trasferimenti di denaro a fondo perduto. Il resto sarebbe stato offerto come prestito a tasso di mercato, una condizione troppo sfavorevole per il governo vietnamita che ha deciso di declinare. Anche verso chi riceve ci sono critiche: «Hanoi ha imprigionato sei leader del movimento per il clima e ha efficacemente criminalizzato l’attivismo politico energetico» si legge ancora. E la criminalizzazione dei movimenti per il clima, è il sottinteso, rende più difficile decarbonizzare. Il risultato è che il consumo di carbone in Vietnam, invece di diminuire, è aumentato.
Il problema dei fondi annunciati e mai arrivati – o arrivati a condizioni non vantaggiose – non è limitato al JETP di Hanoi. Anche per Sudafrica e Indonesia, gli altri due casi più avanzati, si leggono le stesse preoccupazioni sulle cronache specializzate. Secondo l’autorevole Financial Times, a mettere in difficoltà accordi di questo tipo sono «la mancanza di sostegno costante da parte delle banche multilaterali di sviluppo e l’annuncio prematuro di accordi da parte dei leader politici prima che siano garantiti i finanziamenti». Per tutte queste ragioni – in un mondo nel frattempo distratto dai conflitti e in cui i temi climatici sono calati nell’agenda politica – di JETP si è iniziato a parlare sempre meno e con sempre meno entusiasmo. Da speranza del futuro, sono diventati velocemente un ricordo del passato. Come sintetizza la rivista statunitense Jacobin in un articolo di pochi mesi fa: «il recente rollout post-COP26 di partenariati energetici giusti per finanziare paesi poveri che si allontanano dai combustibili fossili è stato ampiamente promosso come uno dei modi in cui i paesi ricchi possono finanziare la transizione verde. Hanno solo un problema: non funzionano».
C’è una nazione, però, che vorrebbe invertire la tendenza.
Il caso colombiano: JETP alla riscossa?
Agosto 2022. In Colombia si tengono le elezioni e, per la prima volta, un candidato dell’opposizione progressista le vince. Gustavo Petro, economista ed ex sindaco di Bogotà, arriva al potere a capo della coalizione Pacto Històrico. Tra i tanti elementi di discontinuità tra la sua e le precedenti amministrazioni, la politica energetica e ambientale. Nonostante la Colombia sia il diciannovesimo Paese al mondo per esportazioni di petrolio, e il quarto per esportazioni di carbone, il nuovo governo ha annunciato l’intenzione di non concedere più licenze per l’estrazione di combustibili fossili, e ha aderito alla Beyond Oil & Gas Initiative, un’alleanza di Stati nata esattamente a questo fine. La Colombia è diventata anche il più grande Paese a sostenere la Fossil Fuel Non-Proliferation Treaty Initiative, una proposta di accordo globale sullo stop alla costruzione di infrastrutture per l’energia sporca costruito sul modello dei trattati di non proliferazione nucleare del secolo scorso.
Posizioni ambiziose, rare nel contesto politico latinoamericano e ancora più rare da parte di un’economia la cui principale voce di esportazione è rappresentata dal greggio. Per dare corpo ai piani di transizione di Petro e della sua ministra dell’ambiente, Susana Muhamad, servono però molti soldi. E per trovarli, Bogotà spera in un JETP.
Il piano colombiano ambisce a raccogliere almeno 40 miliardi di dollari tra fondi pubblici e privati, e l’entità che dovrebbe raccoglierli e gestirli è la Banca Interamericana di Sviluppo. Il primo finanziatore sarebbero gli Stati Uniti d’America, ma altri dovrebbero aggiungersi. Un’ipotesi che, se diventasse realtà, ambisce a fare da modello per altre nazioni del Sud globale. «Stiamo esaminando trenta paesi con economie complementari che possono effettivamente negoziare un regime economico che permetta un’opzione reale per la transizione, assieme ai partner più strategici. Vogliamo creare un’isola, un’isola di paesi che possono mostrare che c’è un’altra strada, e che poi questo sistema diventi più attraente della situazione attuale» ha spiegato Muhamad a Bloomberg. La promessa è quella di non ripetere gli errori del passato: in primis, reperire fondi realmente nuovi, e non prestiti a tasso di mercato.
Il progetto è stato annunciato a ottobre del 2024, ed è ancora presto per un bilancio. Ma per i JETP, che hanno rappresentato ragione di ottimismo per il futuro della transizione, è sicuramente un punto di svolta: prosecuzione del declino o nuova linfa vitale.
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