Pacchetto Omnibus: il futuro di CSRD, CSDDD e Tassonomia UE

14 Febbraio 2025

Il 26 Febbraio, la Commissione UE presenterà il cosiddetto “pacchetto Omnibus“, un regolamento unico che affronterà i contenuti di tre diverse disposizioni: la direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità aziendale (CSRD – Corporate Sustainability Reporting Directive), la direttiva sulla due diligence di sostenibilità (CSDDD o CS3D – Corporate Sustainability Due Diligence Directive) e la Tassonomia UE.

L’obiettivo è quello di elaborare un singolo testo in grado di integrare le tre norme. Un target coerente con il percorso avviato dall’Unione Europea per snellire gli oneri a carico delle imprese, anche semplificando gli impegni richiesti in materia di sostenibilità, con il fine di preservare la competitività del sistema economico comunitario.

Lo scorso Settembre, l’ex premier italiano Mario Draghi ha pubblicato il rapporto “The future of European competitiveness – A competitive strategy for Europe”, in cui ha individuato le barriere normative come una delle principali cause della stagnazione economica dell’UE.

In tema di sostenibilità, a questo hanno fatto seguito, nei mesi successivi, le dichiarazioni del ministro delle finanze tedesco Joerg Kukies, che ha chiesto un rinvio di due anni della CSRD, e quelle del nuovo governo francese guidato François Bayrou, che ha proposto una “pausa normativa” per rivedere la legislazione in corso, ritenuta obsoleta rispetto alle attuali sfide economiche internazionali.

Anche lo stesso Partito Popolare Europeo, guidato dalla presidente della Commissione UE Ursula Von Der Leyen, ha sollecitato una sospensione di due anni degli obblighi derivanti dalla CSRD e dalla CSDDD, ritenendoli sproporzionati e altamente onerosi, con conseguenze non trascurabili sulle PMI.

Il pacchetto Omnibus dovrebbe portare, oltre che al consolidamento delle tre norme, anche ad una revisione delle stesse, con l’obiettivo di semplificarle contenendo gli impegni richiesti alle imprese europee. L’intento dichiarato è quello di ridurre di almeno un quarto gli oneri attualmente previsti, intervenendo sulle tempistiche di adeguamento e i parametri adottati, ma anche focalizzando l’attenzione sulle attività ritenute più dannose. In questo modo si andrebbero a ridimensionare gli impatti dell’impianto normativo sin qui sviluppato, ad apparente beneficio delle “mid-cap”, categoria intermedia di imprese, tra PMI e grandi aziende, che conta più di 30.000 soggetti a livello europeo.

Non sono tuttavia da escludere scenari ancor più radicali, con riapertura di CSRD e CSDDD a livello 1, ovvero agendo sull’atto normativo iniziale, alterandone i principi base e il perimetro di applicazione in modo più significativo. Nello specifico, sono in discussione il tema della doppia materialità – che potrebbe essere sostituita dalla sola materialità finanziaria – e il possibile allineamento tra i termini di attuazione della CSRD (aziende con più di 250 dipendenti) e quelli di attuazione della CSDDD (aziende con più di 1.000 dipendenti), operando una riduzione particolarmente consistente del numero di aziende interessate.

Inoltre, si aggiungono in questo scenario già articolato, le modifiche al Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), il meccanismo di cui al Regolamento (UE) 2023/956, che introduce un nuova tassa europea sul carbonio, con l’obiettivo di garantire una concorrenza più equa tra operatori economici europei ed extra-europei, specialmente quelli operanti in Paesi che sono caratterizzati da una disciplina ambientale meno stringente. Stante agli attuali orientamenti, il CBAM continuerà ad essere applicato solo ai player più rilevanti, circa il 10% delle aziende inizialmente interessate.

In questo scenario di forte incertezza, si fanno più forti le voci di coloro che si battono per mantenere immutati i principi alla base di CSRD e CSDDD. Ferrero, Nestlé, Unilever, sono solo alcune delle multinazionali che hanno chiesto alla Commissione Europea di mantenere invariate le norme in corso di revisione, senza alterarne il contenuto.

Si uniscono al coro anche i principali attori del settore della finanza a impatto, quali ad esempio l’Institutional Investors Group on Climate Change (IIGCC) , il Forum Europeo per gli Investimenti Sostenibili (EUROSIF), e Principles for Responsible Investment (PRI), sottolineando come sia non solo poco funzionale, ma persino dannoso, rivedere gli orientamenti attuali, in quanto ciò determinerebbe un quadro di insicurezza diffusa, una deregolamentazione che metterebbe in discussione gli esiti del riorientamento di capitali già avviato da anni, penalizzando peraltro le imprese ad oggi più virtuose.

Sul piatto ci sono gli interessi dell’intero sistema produttivo comunitario, nel medio e lungo termine, in un periodo storico dove scetticismo e negazionismo climatico tendono a prevalere.

L’Unione Europea deve prestare la massima attenzione a non ridimensionare eccessivamente i propri intenti, allineandosi alle direttrici politiche tracciate da altri Paesi, in particolare dagli Stati Uniti, che con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, hanno lanciato importanti segnali di disimpegno sulle tematiche ESG, si veda quanto accaduto rispetto all’Accordo di Parigi.

Anche per questo è fondamentale che l’Unione Europea preservi quanto profuso nella transizione verde, continuando a promuovere le sue politiche climatiche, indipendentemente dalle scelte intraprese dagli altri attori globali. Abbandonare gli obiettivi attesi, per seguire una visione meno ambiziosa, potrebbe compromettere, oltre al futuro del nostro pianeta, anche la leadership europea a livello internazionale. Ben vengano aggiustamenti dell’impianto giuridico volti all’armonizzazione, all’aumento di funzionalità ed efficienza, ma bisogna considerare con lucidità le conseguenze legate ad un depotenziamento del loro impatto, anche a tutela delle stesse imprese interessate, per le quali la sostenibilità non può essere ridotta ad un esercizio di compliance, ma costituisce oggi il principale strumento per assicurarsi un futuro prospero e sicuro.

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